Articolo tratto da “Il Sole 24 Ore” – 13/10/2020
Clicca Qui per leggere l’articolo integrale.
Squarciare il velo degli stereotipi e dei pregiudizi che distorcono la narrazione della violenza di genere nei tribunali, tra le forze dell’ordine e sui giornali. Il progetto Step, condotto dall’Università della Tuscia come capofila, in partnership con l’associazione Differenza donna, e sostenuto dal Dipartimento Pari opportunità della presidenza del Consiglio – è nato con questo obiettivo. E si è tradotto in due risultati concreti: da un lato un’ampia ricerca che ha analizzato 16.715 articoli pubblicati nel triennio 2017-2019, per un totale di 15 quotidiani analizzati, e 250 sentenze; dall’altro un programma di formazione partito il 12 ottobre e organizzato in quattro tronconi. Quattro come i target coinvolti: giornaliste e giornalisti, avvocate e avvocati, magistrati e forze dell’ordine.
Aggredire il tema del racconto della violenza contro le donne agendo finalmente a tutto campo è il grande pregio del progetto, a cui partecipano anche due giornaliste del team di Alley Oop: chi scrive, in qualità di componente del comitato scientifico e di tutor d’aula, e Flavia Landolfi, come docente. “Ci siamo poste il problema di capire l’entità, le origini e le dinamiche culturali che portano a una vittimizzazione secondaria della donna, sia in ambito giudiziario e delle forze dell’ordine sia sulla stampa”, spiega Flaminia Saccà, ordinaria di sociologia dei fenomeni politici all’Università della Tuscia e presidente del corso di laurea in scienze politiche. “Lo sguardo offerto al dibattito pubblico sulle donne vittime di violenza ci è apparso uno sguardo distorto. Non pienamente a fuoco sulle responsabilità dei colpevoli e sulla condizione delle vittime. Ci interessava comprendere quanto gli stereotipi e i pregiudizi culturali entrassero nei luoghi deputati a difendere le vittime e quanto influenzassero gli articoli, i dibattimenti e le sentenze”.
I risultati, anticipati il 7 ottobre nella sede dell’Associazione Stampa estera alla presenza della ministra delle Pari opportunità Elena Bonetti e della presidente della commissione d’inchiesta sul femminicidio, Valeria Valente, hanno confermato l’ipotesi di lavoro. Tanto negli articoli quanto negli atti giudiziari, la narrazione è alterata da distorsioni evidenti. “Noi abbiamo potuto analizzare quattro repertori di sentenze”, sottolinea Saccà. “Si tratta di repertori parziali e urge la costruzione di un database esaustivo, ma sono significativi. Dimostrano come i pregiudizi e gli stereotipi entrino, nel bene e nel male, nei processi. L’immagine della donna, della vittima, non si esaurisce nei fatti ma è connotata culturalmente: di volta in volta è affidabile, esasperante, angelicata, ingenua, disinvolta, in buona o cattiva fede. E il suo comportamento viene sottoposto a giudizio, a volte tanto quanto quello dell’uomo, che è l’imputato. Ci si spinge a definirlo improprio, lo si ritiene ‘logicamente’ atto a indurre all’esasperazione l’uomo che l’ha ammazzata, o stuprata o massacrata di botte. Quindi anche da morta, da vittima, è spesso il suo comportamento a venire sottoposto a lente d’ingrandimento. Al giudizio”.
L’analisi linguistica delle sentenze, effettuata da Fabrizia Giuliani, docente di filosofia del linguaggio all’Università La Sapienza di Roma, è eloquente. Perché dimostra due dinamiche speculari, frutto entrambe di un bias sessista: il pregiudizio non detto che impone alle donne di doversi difendere dall’accusa implicita di non essere attendibili perché incapaci di governare le proprie emozioni; l’allusione ricorrente alla dimensione passionale come movente dell’autore del crimine, una dimensione alla quale non viene attribuita valenza negativa. “Il delitto d’onore nel nostro Paese è stato cancellato soltanto nel 1981: ciò che la legge cancella sopravvive ancora nella cultura”, ricorda Giuliani. “Nelle parole delle sentenze la violenza appare ancora descritta come una reazione. Sono frequenti gli eufemismi, le mitigazioni, la riduzione della violenza a conflittualità. Una normalizzazione in piena regola”.
Negli articoli è rintracciabile lo stesso fenomeno: l’uomo quasi scompare come responsabile di un reato e diventa invece il metro in base al quale giudicare il comportamento (o la “colpa” della donna). “Anche quando è un assassino, il protagonismo, la centralità della narrazione, ricade sempre su di lui”, rileva Saccà. “Significativamente anche nella denominazione: la donna è chiamata per nome, l’uomo per nome, cognome e non di rado titolo”. Nei titoli compaiono frequentemente i riferimenti all’essere lasciato o tradito o rifiutato, alla gelosia, alla lite familiare e all’amore. “Si continua a cercare giustificazioni attenuanti e a spersonalizzare la violenza, facendo riferimento a fatalità, dramma, tragico epilogo”.
L’effetto finale è straniante: stereotipi che si nutrono e si rafforzano in ogni passaggio, e che tornano in circolo amplificati dai mezzi d’informazione. Con le donne che “vengono chiamate in correità persino quando vengono uccise”, osserva Saccà, senza nascondere l’amarezza. “I primi risultati della ricerca attengono alla chiara, evidente, mancanza di cittadinanza delle donne vittime di violenza nel dibattito pubblico ma soprattutto nella coscienza e nella iniziativa istituzionale. Dispiace dirlo ma c’è ancora molto, moltissimo da fare. Ci sono ovviamente sforzi immani condotti con grande forza, lungimiranza e determinazione dai centri antiviolenza, dai movimenti femministi, da giornaliste che hanno contribuito alla sensibilizzazione sul tema, ma serve una forte iniziativa istituzionale”.
Un cambio di rotta è urgente a partire dai dati, che ancora non ci sono o sono incompleti. È un lascito importante dello studio, questa invocazione accorata a conoscere per contrastare. “I dati relativi alla violenza di genere sono difficili da reperire, parziali, e le analisi non aggiornate”, denuncia Saccà. L’ultimo rapporto Istat, nel 2014, contava quasi un terzo (31,5%) delle donne italiane di età compresa tra i 16 e i 70 anni che aveva subito una qualche forma di violenza.
“Un numero elevatissimo. Un’emergenza sociale che non sembra essere stata compresa a pieno e affrontata in quanto tale. Si è calcolato che di questo 31,5% solo circa il 10% denuncia. Una goccia nel mare. E quando denuncia poi che succede? Quante volte si dà seguito alla denuncia e quante invece il processo si arena per un ‘non luogo a procedere’ lasciando ancora più sola e più esposta la donna? L’Italia è stata sanzionata da Strasburgo perché i non luogo a procedere sono troppi. Il Consiglio d’Europa ha appena espresso preoccupazione per il perdurare di questa situazione, come è giusto. Ancora non esiste un database ampio, certo, affidabile, disponibile, aggiornato, delle denunce, dei non luogo a procedere, delle sentenze di primo e di secondo grado”. Un buco nero che non aiuta nessuno, come non si stanca di ripetere Elisa Ercoli, presidente di Differenza donna, la Ong che con un gruppo di avvocate da anni affianca moltissime vittime di violenza anche nei tribunali. Step aiuta a illuminare le tante zone d’ombra, richiamando tutti, ciascuno nel proprio ambito di competenza, alla responsabilità e all’attenzione alla lingua. Perché le parole sono importanti.
Il programma di formazione per i giornalisti si svolge via zoom il 12, 13 e 14 ottobre, per le forze dell’ordine il 20, 21 e 22 ottobre, per magistrate e magistrati il 27, 28 e 29 ottobre, per avvocate e avvocati il 3, 4 e 5 novembre.